Stefania Beretta.
L’identità svelata tra tecnologia e globalità estetica.
Mi
chino per la prima volta sull’opera della fotografa svizzera Stefania Beretta
(1957), cercando di collocare il suo lavoro nel contesto storico e societale
che lo ospita, lo giustifica e lo rende senza tempo, e paradossalmente
immateriale; poiché l’acqua lenisce i segni, e ciò che rimane di un artista,
non solo è la sua opera, ma soprattutto il suo pensiero via via più fiero e
dominante oltre la sua produzione. Societale, non sociale, poiché l’artista in
generale, proprio per la sua genetica anti-reale, non potrà mai issare la
bandiera dell’impegno civile e – appunto – sociale. Tuttavia la coscienza della
Storia e delle storie rende unica e vigorosa la produzione del pensiero artistico.
In un epoca, in cui il futuro si configura nel consumo ossessivo e quasi
liturgico del presente, attraverso un processo tattile ed espressivo (se non
espressionista), in opposizione consequenziale a tutti gli -ismi
concettualizzanti di tempi addietro. Non solo, aprire gli occhi e svelare
sembrano parole d’ordine per un nuovo ordine sociale.
Stefania Beretta, #2 Self-portrait, Londra, 2005
La
scelta di usare la macchina, di definire, in altri termini, la rappresentazione
del reale attraverso un filtro tecnico e meccanico, una sorta di interfaccia
che riposiziona interamente il concetto di lasso temporale legato
all’esecuzione e che intercorre tra l’idea e il prodotto finale, imporrà a
Beretta, fino ad oggi, un mezzo di produzione e materializzazione del pensiero
e dell’immagine riflessa quale purgatorio ed estenuante ricerca di unità tra documentazione
e rappresentazione dell’immagine; tra cronistoria e universo artistico, tra
desiderio di riproduzione e velleità visionaria. Ed è proprio nel rapporto
perverso spettatore/artista (si ricorderà la significativa Esposizione in tempo
reale n° 4: Lascia su queste pareti una
traccia fotografica del tuo passaggio, Biennale di Venezia di Franco
Vaccari del 1972), e dal suo totale ribaltamento vittima/carnefice, che la
fotografia interviene a forza nel mondo dell’arte visuale come vera e propria
forma d’arte ancorata ai criteri performativi della Body Art quale critica al sistema dell’arte. Se da un lato Vaccari
interviene nello sdoganamento della fotografia verso l’arte, dall’altro, egli
teorizza il soggiogamento dell’uomo all’‘inconscio tecnologico’, di cui la
macchina è portatrice sana. Si consumano altri esempi di illustri pensatori
circa la perdita dell’innocenza di fronte alla tecnologia (McLuhan, Pasolini,
etc.). Siamo nel pieno del pensiero artistico ribaltato all’interno della
relazione arte e scienza. Il movimento Fluxus
farà il resto nel verso di un processo non ancora giunto al capolinea di
definizione della fotografia come aspetto non solo dell’arte, bensì, in primis,
dei processi originari creativi, liberati dallo stesso concetto di cultura
intesa come matrice ed espressione di una realtà borghese.
Stefania Beretta, #1 Self-portrait, Londra, 2005
Il Novecento, un susseguirsi di
movimenti storico-culturali, rappresenta l’apice di un processo di
imborghesimento a difesa dello Stato, che troverà nel dopo-guerra quel
benessere del consumismo concepito per trasformare abilmente l’uomo che produce
nell’uomo che consuma. Proprio in questa fase delicata, laddove la
riproducibilità dell’opera d’arte concima la fotografia e il mercato ad essa
legato, si cerca di definire l’identità dei ruoli e delle competenze
dell’artista-fotografo entro l’arte-mercato, così come Facebook e la produzione
smodata di immagini.
Non
ancora completamente svelato l’arcano in che misura la fotografia sia documento
od opera d’arte, Stefania Beretta sembra coinvolta nel mondo che la circonda,
dal suo processo di globalizzazione fortemente frenato dal buon sano archetipo
umano e connotato da avvenimenti storici fondamentali, capaci di segnare per
sempre il nostro futuro, e soprattutto la nostra consapevolezza di esseri umani
di fronte al mistero delle cose.
Stefania Beretta, Los Angeles, 2006
La
caduta, nel 1989, del Comunismo e lo sgretolamento del tardo Capitalismo nel 2008
hanno rimesso in forte discussione non solo l’assetto economico, bensì anche il
concetto sociologico ed antropologico dell’uomo inteso come ‘persona’.
In
questo stadio di totale emancipazione dalle ideologie e dalle avanguardie, e di
una maggiore presa di coscienza di ciò che l’umanità è nel suo errare nella
stratificazione dei secoli, l’artista si deve riconfigurare recuperando la sua
identità di agente di disturbo e premonitore. L’anti-realtà, di cui è intriso
forse non già per educazione, non lo potrà mai congiungere con quell’impegno
sociale, che – si pensava – lo potesse contraddistinguere dagli anni ’50 del
secolo scorso. Ecco che siamo, quindi, tutti uniti, ma per fortuna separati
nell’incontro con il soci(et)ale. Molte certezze si sono infrante, molti
collettivismi pure; ciò che una volta chiamavamo avanguardia, oggi rimane una
mera moda; uno dei tanti aspetti dell'universo delle cose vane che appartengono
non già all'uomo, ma all'individuo, cioè al suo involucro: un’altra invenzione
della borghesia nascente nel suo massimo splendore.
Stefania Beretta, #76 Indian’s walls, 2008
La produzione di Stefania Beretta si
è sempre concentrata su due aspetti che bene rappresentano l’uomo: l’intimità e
il suo coinvolgimento sociale; ovvero il suo mondo privato e interiore e la
volontà di rendere pubblico il suo intimismo. L’approccio sensuale con il quale
l’artista cerca nel proprio sé, scavando nel proprio corpo fisico e psichico, intervenendo
e solcando la pellicola, la pone all’interno di un universo antireale, ove le
verità più personali e nascoste sono la outline di una ricerca umana ed
esistenziale, che si concretizza con il processo di estetizzazione del proprio
mondo oscuro, da decodificare e interiore. L’ossessione del desiderio, ma anche
il desiderio delle ossessioni, è uno degli aspetti del motore artistico. Ciò è,
così come accade anche a un pittore che elabora l’immagine in un lasso di tempo
meno immediato e prolungato. Stefania Beretta elabora, invece, il negativo, la
matrice e/o l’idea/impressione oculare primaria per offrire al pubblico il suo
risultato positivo, ribaltando completamente le fredde modalità della macchina
e della tecnologia.
Tuttavia,
l’artista svizzera non si ferma a un’analisi del proprio io e del proprio sé
all’interno di un criterio, per così dire, ‘artistico’, bensì attraversa questo
difficile mezzo, la macchina, per rapportarsi al mondo delle diversità e alle diversità
del mondo. Il viaggio interiore, laddove l’artista dà immagine delle
problematiche del suo rapporto con il reale, si trasforma qui in viaggio reale …e
l’aspetto documentario pone la sua persona in una luce diversa.
India,
soprattutto e regolarmente, ma anche Londra nel 2006 e Parigi qualche anno
prima, l’Italia, sono le mete del suo errare e del suo viaggio interiore, dove
Beretta diventa lo specchio imparziale delle immagini che la circondano nel suo
inter-agire, lo strumento, affinché il mondo possa vedere un altro mondo. Non
v’è possibilità, in questo caso, che l’immagine vista dalla fotografa in
anteprima sull’interfaccia della sua macchina non possa corrispondere in pochi
secondi a ciò che il pubblico avrà, in seguito, la facoltà di elaborare e fare
sua. Dei fotogrammi di reportage che vanno a completare i suoi tournage di
video costituiscono un corpo di lavoro fondamentalmente meno autoreferenziale e
più sociale.
Stefania Beretta, Contaminazioni, Londra, 2005
Rimane
la Magia, quel fattore dell’immaginario, che in tutti i casi e per osmosi
emozionale o analitica coinvolge il rapporto artista/pubblico all’interno di un
dialogo tra le parti; una funzione che ci riporta al sogno e alla
smaterializzazione temporale …convinto, come lo sono, che la visione, l’utopia
e l’espressione della cultura rimangono la vera responsabilità civile e sociale
dell’uomo, ‘al di là del possibile, al di là conosciuto!’.
Mario
Casanova, maggio 2012
(pubblicato per gentile concessione della rivista Titolo, luglio 2012)