Paolo Carta: Ciao Mario, grazie per aver accettato la nostra intervista.
Sei il direttore del CACT - centro arte contemporanea ticino, che si trova a Bellinzona in Svizzera. Da cosa nasce la tua attuale professione, qual’è stato il tuo percorso?
Mario Casanova: Innanzitutto sono io a ringraziare Poxart per avermi invitato a rispondere ad alcune domande sul tema dell’arte.
Contrariamente a quanto si possa pensare, la mia formazione non è stata per niente legata alla storia o alla critica d’arte e/o nemmeno all’esperienza in gallerie.
La mia formazione è musicale. Ho studiato pianoforte a Londra e un poco a Parigi, anche se l’interesse e l’amore per l’arte visiva erano già conclamati sin da giovinetto. Parallelamente ai miei studi, realizzavo dipinti e oggetti di arte visiva, che ho esposto in gallerie e musei. Ciò avveniva negli anni Ottanta.
Nel 1994 ho fondato il CACT con una mostra dedicata all’artista Martin Disler; sia negli spazi del CACT che nel castello di Bellinzona, Castelgrande, chiudendo così il ciclo di mostre a lui dedicate prima alla Whitechapel, Lenbachhaus München e alla Kunsthalle Basel. Un inizio che mi ha messo davanti agli occhi la forza dell’arte.
L’incontro con Martin Disler, venuto a mancare nel 1996, ha segnato indelebilmente il mio percorso professionale ed è, ancor oggi, una figura chiave per capirmi.
Dal 2000 ho ricoperto cariche pubbliche, che ho dismesso definitivamente nel 2008, rimettendo completamente in gioco la figura e le responsabilità del curatore, del concetto di avanguardia e della famigerata politica culturale.
Mario Casanova negli studi della RadioTelevisione Svizzera Italiana, 2008
P.C.: Potresti descrivere il CACT ai lettori di Poxart.it dando una visione generale anche delle attività e delle scelte attuali?
M.C.: In questi 17 anni di attività, il CACT sotto un’unica direzione, ha dovuto necessariamente fare un lavoro di riattualizzazione continua per cercare di restituire al suo pubblico un’immagine fedele del mondo che cambia. All’inizio delle nostre attività, ho intercalato molto la presenza di artisti importanti con l’ultimissima generazione, cercando di coprire così alcune falle che la museologia svizzero-italiana non aveva mai colmato.
Dai primi anni 2000 ho affrontato un discorso diverso per quanto attiene alla ricerca attorno alle ultime generazioni. La totale consapevolezza che le ideologie e le avanguardie siano ormai completamente sparite (così come gran parte di esse si siano rivelate totalmente inutili ai fini di una lettura imparziale dell’arte), l’approccio alla creatività artistica è pure cambiato. Ho cercato io stesso di rimettere fortemente in dubbio l’efficacia di un modello istituzionale borghese, fondato sul concetto di mercato dell’arte (e di cui molto musei sono ancora vittime), e che ha in gran parte inibito l’avvicinamento critico all’arte e alla cultura.
P.C.: Tempo fa, in una discussione via Facebook, hai espresso il desiderio di modificare il CACT; c’è qualcosa che non ti piace? Cosa vorresti fare, un cambiamento radicale o implementare l’attuale situazione?
M.C.: Sfiori un tema, che ho ridiscusso con il nostro coordinatore, l’artista Pier Giorgio De Pinto, e con Massimo Vitangeli dell’Accademia di Urbino, poco prima che iniziassi a rispondere alle tue domande. Sì, in effetti, sono in atto dei cambiamenti abbastanza importanti, nella misura in cui non è forse più possibile concepire un museo, il cui spazio per il pubblico è destinato unicamente a mostre d’arte. Vorrei per il 2012 che lo spazio a disposizione divenga più flessibile, senza ruoli precedentemente definiti… che lo spazio assuma identità diverse per produzioni diversificate. L’idea di poter rendere pubblica una parte privata, come la possibilità – per esempio – di ospitare un artista con il suo ufficio o per un workshop, così come invitare il visitatore a vedere ciò che succede realmente dietro le quinte di un’istituzione (l’ufficio reso pubblico), mi avvicina all’idea di casa o istituzione privata che apre le sue porte con la voglia di ospitare e discutere con il suo pubblico. Dare anche all’artista esposto e al suo lavoro quella dimensione più umana, cosa abbastanza rare oggi presso le istituzioni pubbliche.
Già a partire da quest’anno, Pier Giorgio De Pinto ha cercato di dare corpo a queste modalità di ambientazione. Gli eventi/incontri ch’egli organizza con relatori o per video screening di giovani artisti tendono proprio a togliere quella separazione che solitamente c’è tra il museo pubblico e i suoi avventori. Essendo il CACT uno spazio privato e non pubblico, una delle priorità, credo, sia proprio questa. Parlare di ‘salotto’ è forse esagerato, ma lo spirito potrebbe essere questo e giusto.
Un cambiamento radicale non è possibile, poiché bisogna dare comunque continuità a determinati artisti che stiamo seguendo. Poi c’è l’aspetto del MACT Museo d’Arte Contemporanea Ticino, la cui raccolta verrà circuitata entro determinate mostre, a indicare i gusti di un determinato collezionista. Il collezionismo e la collezione privata rimane uno dei punti forti del mondo dell’arte, che – tra l’altro – si sta valorizzando molto a fronte di una forte caduta delle istituzioni pubbliche.
P.C.: La giovane arte è il futuro di ogni cultura e da Direttore-Talent Scout quale sei, hai sempre dato spazio ai giovani artisti. Posso ricordare l’ultima collettiva, “Campus” in cui espone tra gli artisti anche Chiara Seghene, artista di Santa Teresa di Gallura, prima studente dell’Accademia di Belle Arti di Sassari e poi di quella Urbinate. Come si pone il CACT verso i giovani artisti? Devi mediare spesso o hai sempre avuto carta bianca?
M.C.: Come hai ben detto, il compito di un curatore è anche quello di scoprire e anticipare il futuro. Da anni mi occupo di arte nel senso della creazione di un corridoio tra ciò di cui abbiamo conoscenza e le nuove ricerche. È inutile ricordarti alcune mie scoperte che sono sembrati in determinati momenti segno di lungimiranza…
Fai bene a citare CAMPUS, attualmente in corso al CACT, poiché questa mostra va oltre il concetto di esposizione di arte giovane, ma si iscrive in un progetto molto più ampio; cioè la collaborazione in forma di partenariato con l’Accademia di Urbino nella persona di Massimo Vitangeli, professore a Urbino e Macerata. La mostra è uno degli aspetti di questa collaborazione, che ha lo scopo di creare – in generale – legami e un ponte tra la realtà accademica e la pratica dell’arte. La fase curatoriale mette anche i giovani artisti a confronto con un mondo, che non sempre è percepibile quando si studia o si è entro l’istituzione. Il Professor Vitangeli, che non è un semplice insegnante e basta, ha colto questa sottile e sostanziale differenza tra due universi che dovrebbero porsi in continuo contatto, ma anche in antitesi equidistante. Così come pure l’identità del museo non può più ridursi alla conservazione ed esposizione di opere d’arte, consapevoli come lo siamo, che la fruizione si fa ad altri livelli e con modalità diverse. Da un recente studio che il CACT ha fatto per il portale kunst-vermittlung.ch, ci siamo accorti che le informazioni circa le mostre, gli artisti e/o le nostre attività in generale vengono filtrate inizialmente da un’utenza fondamentalmente telematica. Se il nostro sito soltanto viene visitato nei mesi di punta da oltre 40'000 persone ogni mese, ecco che anche conferenze o incontri vanno proposti anche in formati telematici, così come le mostre andrebbero puntualmente corredate da video-interviste etc. Penso al progetto streaming TV, ai blog etc. Ecco che la presentazione di un giovane artista si potenzia e si moltiplica con diversi mezzi di comunicazione. Il progetto CACTyou! si sta occupando proprio di mediazione culturale con lo scopo di meglio capire il rapporto offerta-fruizione.
Della mostra CAMPUS uscirà tra poco un interessante documento filmico con interventi miei e di Massimo Vitangeli.
Per quanto riguarda l’ultima parte della tua domanda, non ho mai dovuto mediare. Mi sono sempre imposto ‘carte blanche’…
P.C.: Da che ti conosco hai sempre espresso un parere positivo e interessato verso gli spazi autonomi, definendoli anche come il futuro dell’arte. Quale pensi sia e come credi si debba sviluppare il contributo di questi spazi verso l’arte e la società che li “contiene”? La ricerca è più attiva in questi spazi?
M.C.: Credo che negli ultimi anni abbiamo assistito alla goffa caduta della politica culturale internazionale, volta ad aziendalizzare e a istituzionalizzare il museo, creando consigli di fondazione in realtà pensati come fossero di amministrazione. Politici, banchieri, direttori di ditte farmaceutiche ne fanno parte; gli esperti d’arte sempre meno. E sappiamo anche che laddove la politica mette il naso in ambito culturale, solitamente globalizza la cultura stessa. Il museo fa lo stesso discorso, presentando una programmazione che strizza l’occhio al mercato, allorquando l’istituto d’arte è per definizione luogo di dialettica, ricerca e scoperta delle nuove tendenze. Il problema accademico-scientifico si muove nella geografia della sclerotizzazione dell’arte, tentando di razionalizzare qualcosa che razionale non è.
Da qualche anno, tuttavia, assistiamo a un fenomeno abbastanza incoraggiante, che si contrappone alla museificazione per una museologia privata. Esso prevede nuove ed entusiasmanti correnti di pensiero e dialettica tra i linguaggi artistici. Sono da poco rientrato da Berlino, dove ho avuto modo di constatare direttamente quanto i collezionisti privati abbiano voglia di crea il loro proprio luogo d’arte, ribadendo il loro proprio gusto estetico e dando indicazioni su cambiamenti epocali in corso. Ciò avviene un po’ dappertutto in Europa con effetti e approcci all’arte diversi e non indirizzati esclusivamente al mercato.
Da questa reale constatazione si rafforza l’interesse per le piccole realtà, dai musei di dimensioni ridotte, ma che si concentrano meglio sulla ricerca, ai centri autonomi (vero humus per una vigorosa creatività giovanile). Insomma, per risponderti senza mezzi termini, la ricerca in queste realtà è senz’altro più attiva, poiché quasi sempre costituite da team di lavoro composti da giovani storici e curatori e artisti che non sentono il dovere di essere ‘impiegati’ statali. Raramente gli esperti dell’arte sono più stupidi del politico o della persona di potere che pretenderebbe gestirli.
Del resto, quando ero presidente della Commissione artistica dell’Istituto svizzero di Roma, si pensava apertamente che senza banche, multinazionali etc. l’arte sarebbe scomparsa. La crisi finanziaria del 2008 e l’andamento dei mercati non ha certamente messo in pericolo la cultura, bensì posto in discussione la cultura dell’ignoranza e la logica di potere e del profitto in ambito artistico.
P.C.: La Sardegna, nonostante la voglia, la passione e la professionalità di buona parte del panorama artistico, non riesce a decollare e a creare un circuito tale che riesca ad esportare la propria arte senza farla implodere. Da esterno, cosa pensi che manchi alla Sardegna, intesa sia per il privato che per il pubblico? Quali gli investimenti da fare e gli obiettivi da raggiungere?
M.C.: In fondo anche tu stai parlando di politica culturale. Una regione, come tu la definisci, periferica dovrebbe porsi in mezzo al flusso dinamico di oggi. Sembra sciocco ciò che sto per dirti, ma ho trovato molto interessante scoprire che nella collezione del MAN c’è un artista sardo, Dino Fantini, che da bambino ho visto tra le opere di famiglia. È quasi paradossale dirlo, ma portare nei musei decentrati ciò che potresti vedere a New York, Parigi o Londra con la pretesa di internazionalizzare, isola ancora di più la produzione di una regione; annientando il regionalismo si favorisce l’arte di mercato e di regime. Questo è il grande errore degli anni ’80, questo è il grande errore della globalizzazione e industrializzazione della cultura e delle arti degli ultimi 20-30 anni. Che senso ha avuto costruire il Guggenheim di Bilbao, città visitata per il museo di Frank O’ Gehry? A lungo andare nessuno… non aggiunge un valore a ciò che già conosciamo e seppellisce quanto di autentico esiste.
Parlare di investimenti equivale a discutere di cultura e non di vetrina dell’arte. Anche in questo caso il collezionismo è vitale, così come l’impegno degli artisti a tessere legami tra le istituzioni. In questo senso, il progetto pilota cui stiamo dando corpo con l’Accademia di Urbino è importante; esso rimette in contatto tutti gli operatori del sistema dell’arte. Questa intervista ne è un tassello.
P.C.: Da Direttore di Museo quale sei tu, come vedi l’unica vera realtà museale in Sardegna, il MAN di Nuoro diretto da Cristiana Collu? Secondo te, negli anni e con i finanziamenti che sono diminuiti, avrebbe potuto fare scelte diverse?
M.C.: Molto spesso di un museo – proprio per la logica della sopravvivenza dalle iene della politica – un direttore deve fare compromessi, cosa che non avviene negli spazi indipendenti, centri autonomi o musei privati. Ho poc’anzi dato delle informazioni circa la mia esperienza, in passato, all’interno di un consiglio di fondazione, laddove la politica culturale era politica e basta.
Il MAN di Nuoro è senza dubbio un contatto importante nel panorama sardo, e sarebbe un peccato se non ci fosse, poiché sarebbe triste non poter essere qui a parlarne, considerato che, come tu dici, questa è comunque l’unica realtà al nord della Sardegna.
Un problema che vedo spesso un po’ dappertutto – anche qui in Ticino – è la mancanza di considerazione di spazi alternativi indispensabili per la sperimentazione dell’arte, un luogo dove l’attuazione di visioni è terreno fertile per le generazioni a venire… quasi sempre realtà volute dagli artisti e potenziatesi con il tempo e la durata.
Per rimanere in Italia, abbiamo visto come importanti realtà parallele e alternative al panorama museale sono andate perse; penso alle Papesse a Siena, a Villa Manin, alla Galleria Civica di Trento diretta da Fabio Cavallucci e tante altre che dimentico di citare.
Il partenariato che il CACT sta siglando con l’Accademia di Urbino ha appunto lo scopo di saldare maggiormente i legami tra la scena emergente e l’istituzione che dovrebbe fare da cassa di risonanza alle nuove realtà nascenti. La Svizzera ha da anni adottato la politica della creazione della Kunsthalle, vero e proprio luogo cuscinetto di produzione diretto dell’arte giovane.
di Paolo Carta
(Intervista pubblicata per gentile concessione di Poxart.it e dell'autore)