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Senza titolo
La (ri)definizione d’identità è e rimane – in generale – uno dei temi
caldi, che riapre un dibattito infinito di tipo sociale ma anche, per certi
versi, antropologico attorno all’essere in relazione all’altro, dentro un mondo
che cambia, e che ancora nasconde in sé molte banalità sensibili e troppe
mistificazioni taciute sulla costruzione di un concetto accettabile di
progresso e di modernità. Non solo perché lo studio sulle identità trova la sua
genesi e si giustifica nella comprensione delle individualità e delle
diversità, ma perché esso studia fortemente le particolarità delle minoranze
altre in rapporto a dominanti sociali, politiche e religiose.
Francesco Arena, artista e curatore di OTHER IDENTITY, mi ha chiesto di
scrivere due righe non obbligatoriamente legate alla sua mostra, e di esprimere
delle mie considerazioni pertinenti a questo tema: in generale.
Esso è vastissimo, non più semplicemente correlato – come detto – allo
specifico della sua mostra o alle identità pertinenti al corpo. Infatti, del
tutto ordinario e ‘dépassé’ sembra oggi parlare di identità in ambito di espressione delle
proprie sessualità; poiché non ci si dovrebbe ormai più esprimere in termini di
una sessualità, quanto piuttosto su di uno spettro che rifrange molte
sessualità, come se l’aspetto trans odierno, rinvigorito da un processo di
virtualizzazione tecnologica e telematica, fosse l’unico vero strumento
catartico per un passaggio da un periodo storico a un altro, entro un’epoca di
guerre tra culture che tentano di reimporre goffamente e con tanta
recrudescenza ognuna la propria idea di identità; una definizione che per
secoli e, ahimè, ancora oggi sembra rimanere un dogma noioso, un assioma
indiscutibile; cioè essere come la società ti impone di apparire. Una società
spaccata nel suo eterno dualismo tra divinazione e incarnazione, e in
equilibrio tra bene e (in)consapevolezza del male e della sua cattiveria
dominatrice.
Ecco, quindi, che lo slogan illuminista e molto ‘radical’ Liberté,
Egalité, Fraternité solo rimane uno tra le tante ipotesi impolverate per un
miglioramento della società anche solo da un punto di vista classista;
possibilismo, cui nemmeno più gli stessi illuministi forse credono di fronte
alla forza dell’uomo e delle sue antropologie bestiali ed egoiche.
L’arte ha sempre rappresentato idealmente quel luogo dove si fondono,
fuori dal tempo e da qualsiasi istituzione, proprio libertà, uguaglianza e
fraternità. In un mondo dove la sessualità, la donna, i bambini e gli animali,
ma soprattutto qualsiasi valore degno di attenzione, vengono sistematicamente
sfruttati e calpestati pur di vendere anche solo un tostapane, paradossalmente
– in arte – il tema delle identità dà fastidio, nella misura in cui esse
rappresentano quel simbolo-traghetto nel verso della liberazione dal dogma,
dell’evasione dalla prigione sociale e dalle divisioni razziali: un sogno, una
visione, una utopia. Perfino il mondo stesso dell’arte è divenuto spesso luogo
di istigazione all’antipatia, alla divisione e alla frammentazione, laddove
competenza e competitività sono state sostituite da ruoli e competizione, e
dall’aggressività: così come qualsiasi altra forma di radicalizzazione
religiosa o politica.
In cosa consiste allora il corpo della cultura? Come si incarna
l’identità? Con quali modalità e sembianze?
Ecco che in tempi di fusione culturale e integrazione sociale, per le
quali abbiamo ceduto gran parte delle nostre libertà e conquiste individuali e
culturali, e laddove i valori vengono sempre meno, riaffiorano simili quesiti;
che sono anche questioni di opportunità e opportunismi.
Il secondo Novecento è stato determinante, direi illuminante, per farci
capire quanto le ideologie, i dogmi e le avanguardie abbiano mal alimentato e
plagiato le nostre fantasie e le nostre vite, millantando un concetto di
progresso e di evoluzionismo fondamentalmente inesistenti se non per quanto
attiene all’idea di nicchia. Il processo di democratizzazione ha fatto il
resto. In questo senso parlare e argomentare oggi di identità, lo si potrebbe
fare solo passando da uno stato identitario come marchio e imposizione sociale
a un approccio quasi trans-sociale, eterotopico, cioè al di là dell’uso stesso
della definizione di identità: processi di democratizzazione e di
statalizzazione assolutamente involutivi per l’identità individuale e
l’autodeterminazione dell’uomo, nella cui contravvenzione qualcuno vedrebbe,
invece, un possibile sviluppo.
Nell’ambito della cultura visiva e non solo, dalla caduta delle
avanguardie prontamente plagiate e sostituite dal mercato, l’arte è alla
ricerca di una sorta di trans-identità, dove l’ibridazione, il metamorfismo, la
fusione tra arte pura e applicazione dell’arte si muovono e dialogano nella ricerca
di nuove forme identitarie e linguaggi estetici; una ricerca più libertaria e
libertina.
Ed è proprio in quell’eterno difficile rapporto tra divinazione e
incarnazione che si gioca il ruolo dell’individuo; nel dialogo monologico tra
corpo e spirito, tra fede e dogma.
È rilevante lo sviluppo delle tecnologie applicate ai social network;
essi incarnano da un lato il neo-surreale, il sogno di una vita parallela o
forse un’isola che non c’è, dall’altro la liberazione dal confronto sociale
diretto e la definizione di una estetica meno corporale e schietta, mediata e
interfacciata.
Se l’arte va nuovamente verso il corpo dopo decenni di concettualismi
assurdi, ci si deve pur porre alcune domande basilari, sia per la vita che per
la sua ridefinizione attraverso lo stilema della cultura e delle arti.
Mario Casanova, gennaio 2016
English
Untitled
The (re)definition of identity is
and remains – in general – one of the burning issues that takes the lid back
off an endless debate in a social vein – but also, in some ways, in an anthropological
one – about relating to otherness, in a world that is changing and that still secretes
within itself many sensitive trivialities and too many concealed mystifications
about the construction of an acceptable concept of progress and of modernity.
Not just because identity studies are grounded in and justified by an
understanding of individuality and of diversities, but because they focus
significantly on the idiosyncrasies of identifiably ‘other’ minorities in
relation to social, political and religious dominants.
Francesco Arena, the artist and
curator of OTHER IDENTITY, asked me to write a few lines, specifying that they
did not necessarily have to be linked to the exhibition, and to express my
thinking about this issue: in general.
It is indeed vast, and – as he
implied – it is not simply correlated to the specifics of his exhibition or the
identities pertinent to the body. In point of fact, these days it seems to be
quite run-of-the-mill and passé to talk about identity in the field of how
people express their own forms of sexuality; the point being that we really
ought not to be talking in terms of a sexuality in the singular, but more of a
spectrum that refracts a multiplicity of sexualities, as though today’s trans issue,
invigorated by a process of technological and telematic virtualisation, were
the only real cathartic tool for passing from one period in history to another,
in an era of wars between cultures that are intent on their clumsy, heavily
recrudescent attempts to force their idea of identity on each other; a definition
that for centuries – and alas still today – has seemed to remain a tedious dogma,
an unquestionable axiom; in other words: being as society obliges you appear. A
society that is split in its eternal dualism between divination and incarnation
and is balanced between good and (un)awareness of evil and of its dominant
malice.
Thus it is that the Enlightenment’s
utterly radical slogan of Liberté, Egalité, Fraternité has ended up as
just one of the many hypotheses for improving society, also from a classist
standpoint, that are now consigned to gathering dust: Maybe not even the
devotees of the Enlightenment believe in such an open-door approach any more
now, when faced with the force of man and of his bestial, egoistic anthropologies.
Art has always ideally constituted
the place where freedom, equality and fraternity meld together, outside time
and all institutions. In a world where sexuality, women, children and animals,
but above all any value worthy of
attention, are exploited and trampled on systematically… anything, just to sell
another toaster!... the theme of identity – in art – paradoxically causes a
disturbance, to the extent that it constitutes the symbolic conveyance towards
liberation from dogma, the means for breaking out from social imprisonment and
racial separations: a dream, a vision, a Utopia. Even the art world itself has
often become a place that provokes reactions of antipathy, division and
fragmentation, one where competence and competitiveness have been replaced by
roles and competition, together with aggressiveness: just like any other form
of religious or political radicalisation.
So what does the body of culture
consist of? How is identity incarnated? By what means and with what semblance?
Questions of this kind recur time
and again, in places where values are increasingly compromised and in times of cultural
fusion and social integration, for whose sake we have yielded up such a large
portion of our freedoms and individual and cultural conquests: they are
questions that are also matters of opportunities and opportunisms.
The second half of the twentieth
century was decisive, I might even say enlightening, in enabling us to
understand how much ideologies, dogmas and avant-gardes malnourished and
plagiarised our fantasies and our lives, laying claim to a concept of progress
and of evolutionism that were essentially non-existent except for their
relevance to the idea of the niche. The process of democratisation did the rest.
In this sense, the only way we could talk and discuss plausibly about identity
today would be by passing from a state of identity perceived as a brand and
social imposition to an almost trans-social, heterotopical approach, i.e. one
that goes beyond the actual use of the definition of identity: processes of
democratisation and of statalisation that are absolutely involutionary for
man’s individual identity and self-determination, in whose breach some instead
would see a potential for development.
Ever since the fall of the
avant-gardes, promptly plagiarised and replaced by the market, art in the field
of visual culture, and also elsewhere, has been searching for a sort of trans-identity,
where cross-fertilisation, metamorphism and fusion between pure art and applications
of art move and dialogue in the quest for new forms of identity and aesthetic
languages: a quest that is more libertarian and libertine.
It is in this eternal, difficult
relationship between divination and incarnation that the role of the individual
is played: in the monological dialogue between body and soul, between faith and
dogma.
The development of the technologies
that are applied to social networks is relevant, since they embody on the one
hand the neo-surreal, the dream of a parallel life, or maybe of a never-never
land, and on the other the sense of not having to come to terms with a direct
social confrontation, while defining an aesthetic that is less corporal and
candid, mediated and interfaced.
If art is once again moving towards
the body, after decades of absurd conceptualisms, it is incumbent on us to ask
certain questions of fundamental importance, both for life and for how it can
be redefined by means of the motif of culture and the arts.
Mario Casanova, January 2016
Translation Pete Kercher