VIA CRUCIS
Conversazione tra Gilberto Santini e Gianluca Panareo
GS: Stazione 1:
“Gesù è condannato a morte”. Cosa significa oggi essere condannati? Cosa ci
condanna oggi a morte e perché? E cosa è “la morte” (per Gesù ad esempio era il
compimento del suo destino, del suo senso)?
Allora, che fatto d'arte ti evoca?
GP: Cosa significa
essere condannati oggi? a morte?
La morte è la materializzazione dell'assenza. Quindi per
parlare di lei bisogna per forza parlare di ciò che si assenta. La vita.
Essere condannati a vivere. E poi sparire.
La natura ha un senso talmente metafisico da non poter
essere sopportato dalla coscienza.
Quando avevo 5 o 6 anni ho provato ad immaginare
l'infinità dell'universo, come se fossi su un'astronave, vedendomi sfrecciare
pianeti e galassie accanto, ancora e ancora e ancora e ancora. Ho avuto un
senso di vertigine talmente forte che sono svenuto.
Ogni essere umano dal momento in cui nasce è condannato a
vivere nel mistero di un'esistenza senza senso, senza certezze, scaraventato
nel mondo alla cieca, sballottato tra istinti, emozioni e pensieri.
Per questo siamo alla continua ricerca di modelli, di un
qualcosa che argini l'infinito, di un limite al vuoto, all'immensa grandiosità
del creato.
I neonati hanno bisogno di sentirsi stretti nelle fasce,
altrimenti piangono.
Religioni, ideologie, convinzioni, filosofie, mode. Un modo
per perpetuare quel bisogno di limite che è la prima cosa che tutti sentiamo. Il
nostro primo alito di coscienza è il bisogno di un limite, di una costrizione
che ci dia il conforto della dimensione.
La prima stazione della via crucis è la nascita. È oggettivamente
il nostro primo passo verso un cammino che porta alla morte.
Un cammino caratterizzato dall'impietosa neutralità della
natura, disseminato di prepotenze strumentali alla sopravvivenza, alla continua
ricerca di un sollievo che può provenire soltanto dall'altro.
Noi sentiamo di esistere solo quando c'è qualcun altro,
l'altro è il nostro limite necessario, il nostro metro di confronto con l'esistenza.
L’altro è nostro sollievo e croce.
Come nella Via Crucis l'altro è sia misericordioso che
indifferente, sia amico che carnefice. La Via Crucis non è soltanto la storia
di Cristo ma la storia di tutte le persone che la compongono.
È la storia dell'animale politico che è in noi, del
nostro rapporto con l'altro nella ricerca di un senso.
A noi la scelta di chi essere. Spettatori, attori o
carnefici. Scegliamo con le nostre azioni.
Da qui una considerazione allegorica della società. Cos'è
la società se non la formalizzazione estrema (con la legge e la morale) di quei
limiti che ci danno conforto? che ci danno un obiettivo e quindi letteralmente
un senso (di marcia)?
Folla. Nella via crucis non si nota mai la folla, forse
la si inizia a considerare come elemento solo con la comparsa dei film, la
folla urlante sulla strada del Golgota, ma nella rappresentazione canonica la
folla è esclusa poiché è il visitatore stesso folla.
La folla come personaggio spettatore, che accetta lo
spettacolo perché è abituata ad accettare la dottrina. Ad accettare la norma,
la normalità, la sicurezza, ad accettare il limbo rassicurante dei cordoni, dei
legami, della vicinanza, della fede. Perché il creato è troppo grande per la
nostra testa, e abbiamo sempre bisogno di un punto di vista. Di un argine che
ci distragga dall'infinito che ci circonda.
Abbiamo bisogno di qualcosa che ci inganni, che ci
costringa. Perché l'infinito è lancinante e doloroso.
Via Dolorosa. Il dolore è quindi verità. Il dolore è ciò
che ci riporta al mondo, che sbaraglia ogni inganno di normalità e ci lascia
lucidamente nel reale. Il dolore trascende anche la convenzione più arcaica
come il Tempo, il dolore è presente. Il dolore è corpo.
Nel dolore della realtà arriviamo a comprendere la radice
della necessità dell'altro perché arriviamo a comprendere noi stessi. Il dolore
è l'incontro con noi stessi.
Ama il prossimo tuo come te stesso.
Quando sai cos'è il dolore sai anche cos'è l'amore. (E da
qui si potrebbe aprire un interessante capitolo sull'odio).
La ricerca della verità è la via dolorosa. La croce come
strumento di verità, di vivido contatto con il creato.
Quindi cosa significa oggi essere condannati a morte?
Secondo me significa essere coscienti della realtà.
Rifiutare gli schemi contenitivi della società che ci rende folla, gli inganni
della sopravvivenza, uscire dal meccanismo della norma per cercare la verità,
col rischio di esserne stritolato.
Cristo stesso ci invita alla disobbedienza del pensiero
oppressivo reiterando il peccato originale della conoscenza, venendo per questo
condannato al dolore.
Essere condannati a morte significa essere condannati a
vivere senza inganni, senza limiti, senza le strutture rassicuranti dello
status quo. Significa essere coscienti del mistero dell'esistenza, dello
sconforto di un vuoto che ci circonda e di cui siamo parte, che può essere
abbracciato solo dalla meraviglia e riempito con l'amore.
Questa riflessione mi evoca un fatto fisico, un'immagine
“scientifica”. L'immagine di un uomo nello spazio, un astronauta alla deriva
nell'universo. Impossibilitato a compiere il minimo movimento in qualsiasi
direzione senza un appiglio materiale o un propulsore esterno.
Un corpo che senza la tuta pressurizzata che lo racchiude
esploderebbe per l'assenza di pressione, per l'assenza di un corpo esterno che lo
contenga nel vuoto infinito.
L'essere umano ha un fisiologico bisogno di integrità e
per questo è destinato alla costruzione di strutture in grado di contenerlo, ma
che allo stesso tempo lo condannano ad avere un perenne rapporto indiretto con
la realtà, alla necessità di un filtro, di un'interpretazione.
2016